LA CORTE D'APPELLO DI TORINO 
                           Sezione Lavoro 
 
    Composta da: 
        dott.ssa Gloria Pietrini Presidente Rel. 
        dott.ssa Rita Sanlorenzo - Consigliere 
        dott.ssa Rita Mancuso - Consigliere 
    A scioglimento della riserva  assunta  all'udienza  del  3  marzo
2015, ha pronunciato la seguente  ordinanza  nella  causa  di  lavoro
iscritta al n. 444/2014 R.G.L. promossa da: 
        Istituto nazionale della previdenza sociale - INPS,  corrente
in Roma, in persona del suo Presidente pro tempore,  rappresentato  e
difeso dall'avv. Atanasio Maurizio  Greco  giusta  conferita  procura
generale ad lites del 23 dicembre  2011  a  rogito  del  dott.  Paolo
Castellini notaio in Roma, elettivamente domiciliato  in  Torino  via
dell'Arcivescovado n. 9, presso  l'Avvocatura  Distrettuale  INPS  di
Torino, appellante 
        Contro M. L., nata a ... il ..., in qualita' di genitore  del
minore M. D. D. A., nato a ... il ...,  entrambi  residenti  in  ...,
elettivamente domiciliati in Torino, via Avigliana n. 23,  presso  lo
studio dell'avv. Silvana Borelli che la  rappresenta  e  difende  per
procura speciale a margine della memoria difensiva, appellato. 
    I. Con ricorso depositato il 1° febbraio 2013 M. L., in  qualita'
di rappresentante ex lege del figlio minore M. D. D. A.,  ha  evocato
in giudizio avanti  al  Tribunale  di  Torino  l'INPS,  chiedendo  la
condanna dell'Istituto convenuto al ripristino della pensione SOS  n.
47002767, revocata con provvedimento comunicato in  data  11  ottobre
2012, e la declaratoria di illegittimita' della contestuale richiesta
di  ripetizione  di  indebito  per  l'importo  complessivo  di   euro
31.232,77, corrispondente agli importi erogati al minore nel  periodo
dal 1° settembre 2009 al 30 giugno 2012. La ricorrente  esponeva  che
si  trattava  di   reversibilita'   del   trattamento   pensionistico
percepito, dal nonno materno del minore, M. V., deceduto il 10 agosto
2009; che il minore stesso aveva vissuto a carico del nonno,  con  il
quale aveva convissuto insieme con la  stessa  madre,  disoccupata  e
priva di reddito; che il  padre  non  aveva  mai  provveduto  al  suo
sostentamento, si' da essere stato dichiarato decaduto dalla potesta'
genitoriale sin dal maggio del 2009; che la revoca era stata disposta
avendo erroneamente ritenuto l'Istituto che la madre  fosse  titolare
di reddito  alla  data  di  presentazione  della  domanda;  che  tale
convinzione era infondata, non possedendo  la  madre  altro  che  una
quota di proprieta' al 50% di un  appartamento,  attualmente  locato,
che le fruttava a titolo di canoni di affitto l'importo  annuo  lordo
di euro 4.856,00 (pari ad euro 3.8202,00 netti); che ai  sensi  della
sentenza n. 180 del 1999 della Corte costituzionale doveva  ritenersi
spettare al nipote il diritto  alla  reversibilita'  del  trattamento
pensionistico di cui gia'  era  titolare  l'ascendente,  in  caso  di
bisogno  del  superstite  determinato   dalla   condizione   di   non
autosufficienza economica, con riferimento  alle  esigenze  medie  di
carattere alimentare, alle fonti di reddito, ai proventi che derivano
dall'eventuale concorso al mantenimento da parte di altri  familiari;
che l'irrisorio reddito in capo alla madre non  poteva  escludere  la
sussistenza del requisito della «vivenza a carico» del nonno paterno;
che  illegittima  pertanto   doveva   ritenersi   la   determinazione
dell'Istituto  di  sospendere  l'erogazione  della  pensione   e   di
procedere al recupero dell'Indebito. 
    2. Si e'  costituito  l'INPS,  sostenendo  che  la  revoca  della
pensione di reversibilita' era stata disposta non  in  considerazione
del reddito del minore, bensi' avuto riguardo al reddito della  madre
esercente la potesta' genitoriale, in  osservanza  alla  disposizione
della circolare n. 213 del 18 dicembre 2000  dell'Istituto,  per  cui
per riconoscere il diritto alla reversibilita' in capo al nipote deve
comunque essere  accertata  l'impossibilita'  di  uno  o  entrambi  i
genitori di provvedere al mantenimento  del  figlio  «in  quanto  non
svolgono alcun tipo di attivita' e non beneficiano di altra fonte  di
reddito». 
    3. Il Tribunale, interrogata la madre del ricorrente, sentita  la
funzionaria dell'INPS della sede competente, che aveva confermato che
il provvedimento dell'Istituto era stato adottato  perche'  la  madre
non  era  risultata  totalmente  priva  di  redditi,  pur   ritenendo
accertato che sino al decesso del nonno il nipote era a carico  dello
stesso, ha integralmente accolto il ricorso. 
    In  presenza  dell'incontestato  presupposto  della  «vivenza   a
carico», il Tribunale ha ritenuto di dover disapplicare la previsione
della circolare INPS che consente l'attribuzione della reversibilita'
ai  nipoti  solo  laddove  i  genitori  siano  «totalmente  privi  di
reddito»: ha infatti osservato la decidente che la stessa  condizione
non e' richiesta in caso di reversibilita' di una pensione diretta di
cui sia titolare il genitore defunto, prevedendo la legge nulla  piu'
che un abbattimento dell'importo della pensione spettante  al  minore
secondo certe percentuali, in caso di titolarita' di reddito da parte
del genitore sopravvissuto. 
    4. Contro tale sentenza ha  proposto  appello  l'INPS,  eccependo
preliminarmente  l'inammissibilita'  del   ricorso   e   nel   merito
chiedendone  il  rigetto.   L'eccezione   di   inammissibilita',   in
particolare, e' stata formulata ai sensi dell'art.  152,  disp.  att.
c.p.c., nella versione come modificata dall'art. 38, comma  1,  lett.
b), n. 2), del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella  legge  15
luglio 2011, n. 111, applicabile  ratione  temporis  (il  ricorso  e'
stato depositato il 1° febbraio 2013). 
    Nell'atto di appello l'Istituto ha evidenziato la totale  carenza
di ogni specificazione, nell'atto introduttivo, e poi comunque  anche
nel corso del  giudizio,  del  valore  della  causa,  secondo  quanto
richiesto «a pena di inammissibilita'», dall'ultimo periodo dell'art.
152, disp. att. c.p.c. Ritenendo tale inammissibilita',  in  mancanza
di ogni ulteriore specificazione  legislativa,  sollevabile  in  ogni
stato e grado della controversia, ha chiesto alla  Corte  di  volersi
pronunciare sul punto con una pronuncia in rito. 
    L'appellata, costituendosi in giudizio, ha chiesto respingersi la
suindicata eccezione e confermarsi nel merito la decisione  di  primo
grado. 
    Questa Corte, ritenutane l'opportunita',  ha  invitato  le  parti
alla   discussione   a   proposito   di    eventuali    profili    di
incostituzionalita' dell'art. 152 disp. att.  c.p.c.  in  esito  alla
quale, all'udienza del 3 marzo 2015, si e' riservata. 
    6. Preliminare al merito della controversia risulta la  decisione
sulla sollevata eccezione di inammissibilita' del  ricorso  formulata
dall'Inps. 
    La  parte  attrice  ha  omesso  infatti  di  formulare   apposita
dichiarazione  relativa  al  valore  della  prestazione  dedotta   in
giudizio, che l'art. 152 disp. att. c.p.c., a seguito della  modifica
introdotta con l'art. 38, comma 1, lett. b), n. 2, del d.l. 6  luglio
2011, n. 98, convertito, con modificazioni,  nella  legge  15  luglio
2011,  n.  111,  prescrive  che,  «a  pena  di  inammissibilita'  del
ricorso»,  debba  essere  formulata  «nelle   conclusioni   dell'atto
introduttivo». 
    L'INPS  sostiene  che  tale  omissione  -  pacifica  -   comporta
irreparabilmente la sanzione dell'inammissibilita' del  ricorso,  che
puo' e deve essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento. E
dunque  chiede  a  questa  Corte  di  appello  che,  senza  procedere
all'esame del merito, applichi la disposizione di legge richiamata. 
    7. A tal proposito, questa Corte preliminarmente osserva: 
        il tenore letterale della norma che, dopo aver  vincolato  il
giudice ad una liquidazione delle spese nei giudizi  per  prestazioni
previdenziali che non superi il valore della prestazione  dedotta  in
giudizio, sancisce che «A tal fine, la parte ricorrente,  a  pena  di
inammissibilita' del  ricorso,  formula  apposita  dichiarazione  del
valore  della  prestazione  dedotta  in   giudizio,   quantificandone
l'importo nelle conclusioni dell'atto introduttivo», ne comporta  una
applicazione obbligata in tutti i casi in  cui  la  parte  non  abbia
assolto all'obbligo di legge. Questo deve avvenire anche  quando  non
solo l'eccezione sia stata sollevata per la prima volta in  grado  di
appello, ma anche se e'  incontroverso  che  nel  caso  specifico  la
liquidazione delle spese e' immune dal superamento del  limite  posto
dal paragrafo precedente  della  stessa  disposizione.  Nel  presente
grado  di  appello  l'INPS,  dopo  aver  operato  a  sua   volta   la
dichiarazione  a  proposito  del   valore   («indeterminato»)   della
controversia  all'atto  del  deposito  del  ricorso  ai  fini   della
corresponsione del Contributo unificato, fra i motivi di appello  non
ha inserito alcuna doglianza sulla liquidazione delle  spese  stesse,
quale operata dal primo giudice, si' che la stessa (in  importo  pari
ad euro 1.800,00, comprensivo  di  diritti,  onorari  e  spese)  deve
ritenersi corretta, e non eccessiva rispetto ai limiti  individuabili
ai  sensi  del  D.M.  n.  140/2012,  applicabile  al  momento   della
decisione. Comunque, da questa Corte non potrebbe nemmeno piu' essere
scrutinata in caso di esame del merito e di conferma della  decisione
di primo grado, per mancanza di specifico motivo di appello. 
    8. Tanto premesso ritiene il collegio di non  poter  aggirare  in
via  interpretativa  l'applicazione  della  disposizione  richiamata,
stante la chiarezza della sua formulazione. 
    Come  condivisibilmente  precisato  dall'INPS  nel  suo  ricorso,
l'inammissibilita'  del  ricorso  e'  difetto  di  tale  gravita'  da
escludere la «potestas judicandi» del giudice (v., da ultimo,  Cass.,
sent. n. 27049/2014: «La declaratoria di  inammissibilita'  dell'atto
introduttivo  del  giudizio  determina  il  difetto  della  «potestas
judicandi» del giudice in relazione al merito della controversia,  la
cui rilevabilita' d'ufficio e' compatibile  con  il  principio  della
ragionevole durata del processo di cui all'art. 111,  secondo  comma,
Cost., trattandosi di vizio attinente all'esistenza stessa del potere
giurisdizionale nel caso concreto»). 
    Ne' puo' accedersi (secondo quanto propone la parte appellata) ad
una interpretazione «costituzionalmente orientata»  del  disposto  di
legge, secondo un'applicazione analogica della  previsione  contenuta
nel secondo comma dell'art. 445-bis c.p.c. (disposizione recentemente
fatta salva da ogni sospetto di costituzionalita'  da  codesta  Corte
con la sentenza n. 243/2014). Nella disposizione richiamata, infatti,
l'espletamento del previo accertamento tecnico-preventivo e' previsto
come condizione di  procedibilita'  e  non  di  proponibilita'  della
domanda  di  merito  volta  al  riconoscimento   del   diritto   alla
prestazione     assistenziale     o      previdenziale:      inoltre,
«l'improcedibilita' deve essere eccepita  dal  convenuto  a  pena  di
decadenza o rilevata di ufficio  dal  giudice,  non  oltre  la  prima
udienza. Il giudice, ove rilevi che l'accertamento tecnico preventivo
non e' stato espletato  ovvero  che  si  e  iniziato  ma  non  si  e'
concluso, assegna alle parti il termine di  quindici  giorni  per  la
presentazione  dell'istanza  di  accertamento   tecnico   ovvero   di
completamento dello stesso». La mancata osservanza degli  adempimenti
richiesti dalla legge,  come  sottolineato  da  codesta  Corte,  «non
comporta(no) alcuna compressione dei diritti della parte privata». 
    La fattispecie non puo' dunque essere correttamente  accostata  a
quella  disciplinata  dall'art.  152  disp.att.  c.p.c.,  in  cui  e'
esplicito      il      riferimento      all'istituto      processuale
dell'inammissibilita' che, in mancanza di specificazioni legislative,
risulta sempre rilevabile nel corso del processo anche per iniziativa
d'ufficio. 
    9. Rileva il collegio che  nel  caso  dell'art.  152  disp.  att.
c.p.c. la sanzione e' espressamente sancita al fine  di  evitare  una
liquidazione delle spese processuali esorbitante rispetto  al  valore
del capitale. Dubita la corte che una conseguenza grave  e  di  cosi'
radicale  portata  quale  l'inammissibilita'  del   ricorso   risulti
adeguata rispetto allo scopo a cui e' collegata: tale sproporzione si
rende tanto piu' evidente in un caso in cui, come quello in esame, lo
stesso risulta essere stato  comunque  positivamente  raggiunto,  non
essendovi ragione per dubitare che la liquidazione delle spese  abbia
superato il valore del capitale. Il precetto  legislativo  sul  punto
non  presenta  equivoci:   una   volta   verificata   la   violazione
dell'obbligo della parte di dichiarare  il  valore  della  causa,  il
giudice, anche in grado di  appello,  si  trova  a  dover  dichiarare
inammissibile l'originario ricorso, senza poter  procedere  all'esame
del merito della controversia,  e  senza  poter  valutare  se  quella
originaria omissione sia risultata rilevante o meno rispetto al  fine
dichiarato dalla legge. 
    V'e'  dunque  da  chiedersi  se  sia  consentito  al  Legislatore
introdurre una sanzione quale l'inammissibilita' del ricorso, in caso
di omessa indicazione del valore della causa, richiesta al solo  fine
di consentire al giudice medesimo di liquidare correttamente le spese
di  lite.  Una  sanzione  di   tale   portata   risulta   del   tutto
sproporzionata  (e  dunque  irragionevole  la  disposizione  che   la
prevede), laddove lo scopo considerato dal  legislatore  e'  comunque
raggiungibile anche per altra via (come nel caso di  specie,  in  cui
nei fatti e' stato positivamente conseguito dal giudice, si'  che  la
parte a tutela della quale la norma e' stata posta,  l'INPS,  non  ha
ragione di formulare doglianze in proposito). Non  pare  comunque  al
collegio che il dubbio di costituzionalita' possa essere  scongiurato
attribuendo al giudice la possibilita' di applicare di volta in volta
la norma previa la  verifica,  in  concreto,  della  possibilita'  di
ricavare  il  valore  della  causa  da  elementi  ulteriori  rispetto
all'apposita dichiarazione in sede di conclusioni finali del ricorso.
La previsione legislativa della  sanzione  della  inammissibilita'  a
fronte del mancato  adempimento  della  parte  mira,  come  detto,  a
sottrarre al giudice il potere-dovere di esaminare  il  merito  della
controversia: e  questo,  senza  che  dal  testo  delle  norma  siano
formulate eccezioni in  considerazione  dell'avvenuto  raggiungimento
dello scopo (d'altronde incompatibili con la portata  della  sanzione
prevista). 
    10. In base a tali premesse, la previsione  dell'art.  152  disp.
att. c.p.c. pare pertanto al collegio  in  contrasto  con  il  canone
dell'art.   3   Cost.,   innanzitutto   sotto   il   profilo    della
ragionevolezza. 
    Ha ben presente il collegio rimettente la costante giurisprudenza
di  questa  Corte,  secondo  cui  il  legislatore  dispone  di  ampia
discrezionalita' nella conformazione degli istituti  processuali  (ex
plurimis: sentenza n. 216 del 2013, sentenza n. 304 del 2011). Questa
stessa  giurisprudenza  individua  pero'  a  temperamento   di   tale
discrezionalita', il limite della  manifesta  irragionevolezza  delle
scelte compiute (si vedano le sentenze n. 117 del  2012;  n.  52  del
2010; e n. 237 del 2007). Ritiene il collegio che  l'art.  152  disp.
att. c.p.c. cosi' come formulato, nel prevedere  una  sanzione  cosi'
grave ed inemendabile nel corso dello stesso processo, anche in  caso
di raggiungimento dello scopo  di  una  corretta  liquidazione  delle
spese a carico dell'INPS, abbia superato il limite posto dalla  Corte
e risulti cosi' viziato da manifesta irragionevolezza. 
    11. Ma e' ravvisabile anche un secondo profilo di  illegittimita'
costituzionale. 
    Da ultimo, la Cassazione (sent.  n.  2143/2015),  sulla  scia  di
precedenti decisioni delle Sezioni Unite (sentt. n.  5700/2014  e  n.
9558/2014) ha evidenziato che la Corte di Strasburgo ha avuto modo di
affermare in piu'  occasioni  che  le  limitazioni  all'accesso  alla
tutela giurisdizionale per motivi  formali  non  devono  pregiudicare
l'intima essenza di tale diritto; in particolare tali limitazioni non
sono compatibili con  l'art.  6,  comma  1  CEDU,  qualora  esse  non
perseguano uno  scopo  legittimo,  ovvero  qualora  non  vi  sia  una
ragionevole relazione di proporzionalita' tra il mezzo impiegato e lo
scopo perseguito (v. tra le altre Corte EDU Walchli  c.  Francia,  26
luglio 2007; Faltejsek c. Repubblica Ceca, 15 maggio 2008). 
    Proprio questa seconda eventualita'  (sproporzione  tra  mezzo  e
risultato) viene all'evidenza nella fattispecie concreta: nella quale
il collegio si troverebbe costretto  a  dichiarare  inammissibile  il
ricorso, con conseguente necessita' per la parte  ricorrente  di  una
nuova iniziativa giudiziaria (peraltro  minacciata  dal  maturare  di
termini di decadenza, ovvero di  prescrizione,  relativi  al  diritto
vantato e gia' riconosciuto come sussistente  dal  primo  giudice,  e
comunque contrastante con  il  principio  di  portata  costituzionale
della ragionevole durata del processo). La sproporzione e' tanto piu'
evidente se solo si considera  che  l'iniziativa  giudiziaria  ha  ad
oggetto il diritto alla pensione di  reversibilita'  in  capo  ad  un
minore, privo di redditi, che gia' ne ha  fruito  dal  2009  sino  al
momento della revoca da parte dell'INPS, che oggi rivendica anche  le
somme   che   assume   indebitamente   versate.   La   pronuncia   di
inammissibilita'   precluderebbe   all'originario    ricorrente    il
riconoscimento del  diritto  ad  una  prestazione  previdenziale  che
rientra nell'alveo di copertura dell'art. 38 della Costituzione: cio'
che rende la sproporzione ancora piu' evidente e intollerabile. 
    Come e' noto, la Corte costituzionale (a partire  dalle  sentenze
nn. 348 e 349/2007) e' costante nel ritenere che le norme della  CEDU
integrano,  quali  norme  interposte,  il  parametro   costituzionale
espresso dall'art. 117, primo comma Cost., nella parte in cui  impone
la conformazione della  legislazione  interna  ai  vincoli  derivanti
dagli  obblighi  internazionali.  Nel  caso  in  cui  si  profili  un
contrasto tra una norma interna ed una norma CEDU  (che  deve  essere
applicata nel significato attribuito dalla  Corte  EDU),  il  giudice
nazionale comune deve preventivamente verificare la praticabilita' di
un'interpretazione della prima  conforme  alla  norma  convenzionale,
ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica  giuridica.  Se
questa verifica da' esito negativo e il  contrasto  non  puo'  essere
risolto  in  via  interpretativa,  il  giudice  comune,  non  potendo
disapplicare  la  norma  interna  ne'  farne  applicazione,  avendola
ritenuta in contrasto con la CEDU, e pertanto  con  la  Costituzione,
deve denunciare la rilevata incompatibilita' proponendo questione  di
legittimita' costituzionale in riferimento all'art. 117, primo comma,
Cost. 
    12. La questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  152
delle Disposizioni di attuazione del codice  di  procedura  civile  -
come modificato dall'art. 38, comma 1, lett. b), n.  2,  del  d.l.  6
luglio 2011, n. 98, convertito, con  modificazioni,  nella  legge  15
luglio 2011, n. 111, nella parte in cui prevede «A tale fine la parte
ricorrente, a pena di inammissibilita' del ricorso, formula  apposita
dichiarazione del  valore  della  prestazione  dedotta  in  giudizio,
quantificandone l'importo nelle conclusioni dell'atto  introduttivo»,
risulta, oltre che non  manifestamente  infondata,  anche  rilevante,
perche' solo la eliminazione della  sanzione  della  inammissibilita'
del ricorso a seguito  dell'omessa  dichiarazione  del  valore  della
causa puo' consentire  l'esame  nel  merito  della  fondatezza  della
pretesa del ricorrente, gia' affermata dal Tribunale di Torino.